Ergastolo

Avvocato Corinna Fabbri | Ergastolo

Ho deciso di scrivere qualcosa su questa pena, la più discussa e controversa del nostro ordinamento giuridico penale.

Riporto l’articolo del giornalista Romano Pitaro, in merito alla tesi di laurea su tale conseguenza del reato di un ergastolano.

“Claudio Conte, 45 anni e 27 di carcere già fatto, ha lo sguardo mobile. Come cercasse, invano, un punto su cui fermarsi. S’intuisce l’emozione. La giornata è di quelle che segnano una vita. Per incontrarlo, si sono scomodati dieci docenti universitari guidati dal costituzionalista Luigi Ventura, preside della Facoltà di Giurisprudenza della “Magna Grecia”. Lui, il detenuto, quand’è stata l’ora dei ringraziamenti, ha detto: «Oggi è entrato in carcere un pezzo di libertà». Venerdì 22 aprile: tutt’intorno, nel penitenziario “Ugo Caridi” di Siano a Catanzaro che ospita 700 persone perlopiù meridionali, si respira aria di festa. La cerimonia di una laurea in legge dietro le sbarre, però, a guardarla con occhi distaccati, evoca, piuttosto che entusiasmo, le tristi parole di una vecchia canzone di Claudio Lolli: «Vent’anni (più o meno l’età in cui Claudio Conte è finito in carcere a Lecce) tra milioni di persone, che intorno a te inventano l’inferno. Ti scopri a cantare una canzone, cercare nel tuo caos un punto fermo. Vent’anni e solitudine sorella, ti schiude nel suo chiostro silenzioso, il buio religioso di una cella, la malattia senile del riposo. Vent’anni e solitudine nemica, ti vive addosso con il tuo maglione, ti schiaccia come un piede una formica, ti inghiotte come il cielo un aquilone, vent’anni e uscirne fuori è fatica». Eppure, in quel “chiosco silenzioso”, Claudio Conte ha fatto una «scoperta meravigliosa»: la Costituzione. Sicché, venerdì ha potuto depositare sul tavolo della Commissione di laurea un lavoro “poderoso” (l’ha definito così il prof. Ventura) che intercala il suo lungo percorso umano, lastricato di dolori e ravvedimento, con una mole enorme di riferimenti specialistici «sull’irretroattività delle preclusioni ai benefici penitenziari (introdotte nel ’92) ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo prima del 2008».

CLAUDIO CONTE E L’ERGASTOLO OSTATIVO Giornata decisiva per Claudio Conte. Come altre nella sua vita, ma le altre, alcune di sicuro, non gli hanno portato bene. Se è in carcere da quando aveva diciotto anni e mezzo ed oggi ha oltrepassato la soglia dei quaranta, è perché in quelle “altre” giornate, altrettanto indelebili, ha giocato pesante, nei borghi di città in cui la guerra dei clan «mischia vittime e carnefici» fagocitando giovani abbandonati a se stessi. E ora sono ventisette anni di galera dura con un ergastolo ostativo da scontare. Anzi no: perché quand’è ostativo il detenuto non sconta un bel niente, visto che (Lolli) «è incastrato senza resistenza» e ha «una coscienza rattrappita che vuole venir fuori e srotolarsi». Srotolarsi, ma non può: perché, nonostante l’articolo 27 della Costituzione, che non predilige pene contrarie al senso d’umanità ma chiede che tendano alla rieducazione del condannato, lo Stato l’imprigiona per la morte; «e ti schiaccia – canta Lolli – come un piede una formica…E uscirne fuori è fatica». La serrata requisitoria di Conte contro l’ergastolo ostativo (il titolo della tesi, disponibile anche in versione digitale, è: “Profili costituzionali in tema di ergastolo ostativo e benefici penitenziari”), ha avuto l’apprezzamento del prof. Ventura che l’ha definita «una lezione». Infatti Conte, per oltre un’ora, con la stessa abilità di uno sherpa del Nepal ad alta quota, ha illustrato norme, leggi, sentenze, decisioni difformi dai principi costituzionali, conducendo un ragionamento conclusosi con la richiesta «di una soluzione al problema dell’ergastolo ostativo nel rispetto del diritto».

CON L’ERGASTOLO PERDI LO STATUS DI CITTADINO Ma se lo Stato non gli dà, a lui che ha già ingollato ventisette anni di reclusione e a quelli come lui (in Italia sono 1.619 i condannati alla pena perpetua e 1.174 gli ergastolani ostativi ai sensi dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario) neppure il bacio che nella fiaba si concede al “principe ranocchio”, Conte la speranza non l’ha persa. Asserisce di sentirsi «schiavo», perché «con l’ergastolo non hai più lo status di cittadino ma sei ‘cosa’ di un potere che non ascolta», o «un naufrago alla deriva su un’isola deserta dove è inutile proclamarsi innocenti o colpevoli perché in questi luoghi nessuno ha il potere di liberarvi», ma non ha mai ceduto alla disperazione. E dopo un lungo cercarsi, lavorando di scavo nelle storie tortuose del suo mondo schiacciato da povertà e violenza, sostenuto da funzionari dello Stato come la direttrice del carcere di Siano Angela Paravati per la quale «la pena non può essere la rivalsa della società civile nei confronti del reo o il luogo delle vendette pubbliche e private da esercitare ampliando gli effetti della detenzione mediante sofferenze fisiche e psichiche dei carcerati», ha deciso di reagire. Studiando legge da mattina a sera. Compulsando libri e codici, prendendo appunti, scrivendo dell’angoscia di chi davanti a sé ha una prigione senza uscita. E presentandosi, infine, davanti alla Commissione di laurea della Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro (ha iniziato gli studi a Perugia) con una tesi sulla sua stessa condanna. Quella cioè del “fine pena mai” e senza benefici di sorta. «Un lavoro – asserisce il meridionalista Nicola Siciliani de Cumis che lo segue da tempo e che ha esperienza di ‘elaborazioni’ e di ‘confezioni’ di tesi di laurea – in odore di ‘novità’. Una sorta di ipertesto di straordinario impatto culturale con comparazioni e acquisizioni giurisprudenziali nazionali e internazionali mirate (Corte di Strasburgo!) finalizzate a costruire un originale «stato dell’arte» e a sostenere con rigore logico-giuridico «la tesi della tesi». Ossia il diritto di tutti i cittadini a un lavoro gratificante e il diritto alla libertà, quando si è compreso il valore delle vite spezzate. E si è pagato il prezzo nelle durezze della vita carceraria, «dove – ha scritto Claudio Conte recensendo il libro di Elvio Fassone “Fine pena: ora” – le deroghe alle garanzie processuali lasciano il reo in balia delle tante manchevolezze, le incapacità, l’insensibilità, la cieca e bieca burocrazia che deformano la pena detentiva in tortura, in pena capitale». E poi l’affondo: l’invito della tesi, a settanta anni di distanza dalla nostra Carta costituzionale, a rileggere, con rinnovata freschezza ermeneutica, gli articoli 2, 3, 27, 34.

«NEL CARCERE DI SIANO A CATANZARO PREVALGONO LE LUCI» Infine, le strette di mano. La Commissione, rigorosa nella disamina del laureando si concede eleganti deviazioni dalla routine e (“irritualmente”) fa omaggio a Conte di un volume collettaneo (“Principi costituzionali” di L. Ventura e A. Morelli). Si ritira per la decisione e sentenzia: «110, lode accademica e menzione accademica». Il relatore si sbilancia: «Non abbiamo studenti di questo livello nella nostra facoltà». Applaudono i parenti venuti dalla Puglia. Commozione e qualche lacrima. I detenuti, una decina, offrono i pasticcini. E’ l’ora di uscita, per chi può. La direttrice ringrazia – «il carcere deve garantire la speranza a persone che nel passato hanno commesso errori» – e legge la lettera di auguri dell’arcivescovo Vincenzo Bertolone al detenuto dottore. Al giudice di sorveglianza, Laura Antonini, che «ha voluto esserci», Claudio Conte consegna una copia della sua tesi con una stretta di mano. Prima che Conte rientri nel circuito di massima sicurezza, le ultime battute. Lui non si ritrae: «Ogni istante qui è prezioso, parliamo pure». Sovraffollamento e suicidi in carcere: «Accadono quando la capacità di resistenza è finita». Riflette: «Colpisce l’indifferenza di una società che al carcere affida la soluzione di conflitti sociali irrisolti». Del tempo che scorre: «In carcere si contano i giorni, le ore, i minuti». Dei gesti di autolesionismo di molti detenuti: «Sono la conseguenza dell’abuso della carcerazione preventiva e dell’omessa applicazione delle pene alternative in fase esecutiva». Del carcere di Siano dov’è giunto nel 2008: «Non può essere definito un fiore all’occhiello, come Bollate o Laureana di Borrello, ma neanche un girone infernale. La nuova gestione ha fatto molto e molto si vuole fare, tra mille difficoltà. Conciliare sicurezza con sviluppo e rispetto della persona non è facile. Luci e ombre esistono dappertutto, ma a Catanzaro prevalgono le luci. E io, in quasi trent’anni, ne ho viste di carceri…».”

Talvolta, la giustizia non è quella rappresentata ogni giorno in maniera negativa e derisoria dalla cronaca e dalla società, ma è quella vera. Del giusto. Del diritto. Della legge.

Così, condivido l’esperienza di un giudice che, per ben 26 anni, si è scambiato lettere con il carcerato che aveva condannato all’ergastolo.

“«Caro presidente». «Caro Salvatore». Per 26 anni il giudice Elvio Fassone ha scambiato migliaia di lettere con un detenuto che lui stesso aveva condannato all’ergastolo. Salvatore M. aveva sulle spalle 15 omicidi. «Caro presidente». «Caro Salvatore»: le lettere iniziano tutte così. Tranne una: «L’altra settimana ne ho combinata una delle mie. Mi sono impiccato. Mi scusi». Un agente di custodia lo ha salvato. Ma leggendo quelle parole, il giudice realizza che 26 anni sono un tempo enorme. «Nemmeno tra due amanti è possibile uno scambio di lettere così lungo».  È in quel momento, quando Salvatore cerca di farla finita, quando decide che quel «Fine pena: mai» che la giustizia ha scritto sulla sua scheda si deve trasformare in «Fine pena: ora»; ecco, è allora che il giudice capisce che quel carteggio così lungo, ormai così confidenziale, potrebbe anche finire. E decide che questa storia debba essere raccontata.  «Fine pena: ora» è il titolo del libro che ha scritto, edito da Sellerio. «Questa vicenda – spiega Fassone nel primo capitolo – ha un particolare che credo la differenzi dalle altre. All’inizio della storia c’è qualcosa che l’ha messa in moto, qualcuno che ha pronunciato la condanna di Salvatore all’ergastolo, che ha spalancato i cancelli destinati a rinchiuderlo per sempre. Ebbene, l’uomo che ha segnato la sua vita e poi, in qualche misura, lo ha accompagnato per ventisei anni, sono io».  Elvio Fassone – già senatore – prima di andare in pensione, era magistrato a Torino. Mentre a Palermo stava per concludersi il maxiprocesso a Cosa Nostra, 1500 km a Nord stava per iniziare un altro processo alla mafia, quella catanese. Anche questo era maxi: 242 imputati. E molti giudici si sfilarono. Fassone accettò di presiedere la Corte d’assise. Tra gli imputati c’era anche Salvatore, un curriculum criminale «la cui lunghezza si misurava a spanne». Lo scontro in aula fu duro. Ma poi arrivò la svolta che avrebbe portato all’inizio di questo scambio di lettere unico e che Fassone ci racconta così: «Ogni giorno, a fine udienza, mi fermavo in ufficio per ricevere mogli, madri, parenti degli imputati. Li ascoltavo, li aiutavo se chiedevano il permesso per incontrare i detenuti. Si era arrivati a una mediazione importante: i detenuti avevano spesso processi in altri tribunali d’Italia, ma questo significava che ogni volta avremmo dovuto interrompere il processo a Torino, e chissà quando avremmo finito. Ebbene, noi giudici ci eravamo impegnati nei giorni nei quali loro erano assenti a non trattare i reati che li riguardavano».  Senza sacrificare alcuna delle esigenze del processo, ha avuto un gesto di umanità. Ha trattato gli imputati come persone. Non ha dimenticato le regole, non ha chiuso un occhio, non si è tirato indietro quando si trattava di decidere in nome del popolo italiano. Semplicemente, non ha scordato di essere uomo con davanti altri uomini. Sull’unico terreno comune che unisce un giudice e un condannato, l’essere umani, è stato piantato il seme da cui sarebbe germogliato il legame lungo 26 anni con Salvatore. Che si rafforzò quando il giudice gli concesse di andare a trovare la madre malata, senza manette ai polsi. Dopo la sentenza, Fassone spedì un libro a Salvatore, che nella vita aveva solo letto atti processuali: «Siddharta» di Hermann Hesse. Salvatore rispose con la prima delle 1.300 lettere tra i due: «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso sarebbe stato lui nella gabbia. Se io nascevo dove è nato suo figlio, forse ora farei l’avvocato». Una frase che non si dimentica. «Salvatore – dice oggi il giudice – nella lotteria della vita ha preso il biglietto che porta nella tomba dei vivi». Nel libro, ogni racconto prende il via da una frase scritta da Salvatore, che le carceri d’Italia le conosce pressoché tutte. C’è una lettera in cui parla del primo bagno al mare, dopo 23 anni di detenzione: «È stato fantastico, qui l’isola è veramente bella, in certi momenti sono persino un po’ felice». In altre pagine racconta quando la compagna, Rosi, che l’aveva seguito nei suoi spostamenti, lo lascia: «Non c’è dolore che io non conosca, ma questo è stato il più grande di tutti». Replica in un passaggio il giudice: «Il ricordo di una gioia passata non è più gioia, ma il ricordo di un dolore è ancora sempre dolore».”

La legge è uguale per tutti.

La giustizia