PRINCIPIO DI LEGALITA’
Tra i principi fondamentali destinati a conformare il moderno diritto penale, quello di legalità risulta essere il cardine centrale, trovando espresso riconoscimento, a livello costituzionale, all’interno dell’art. 25, comma 2 Cost. Peraltro, esso trova esplicazione, dal punto di vista della normazione primaria, agli artt. 1 e 199 cod. pen., da ciò ricavando la centralità della scelta politica e della decisione del legislatore nello stabilire la punibilità o meno del fatto antisociale, nonché segnando il passaggio, attraverso l’affermazione della primazia della legge, dallo stato assoluto allo stato di diritto moderno. Il principio di legalità si connette al brocardo latino nullum crimen nulla poena sine lege, sviluppatosi a partire dalle spinte rivoluzionarie americane e francesi, poi elaborato compiutamente dagli studiosi illuministi tramite la ripresa dell’art. 7 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. In seguito, l’elaborazione successiva – in particolare di Feuerbach, ha dedotto la necessità di una anticipata conoscenza delle fattispecie astratte di reato quale presupposto condizionante l’effettiva attitudine deterrente della pena. A tal punto, occorre interrogarsi sulla portata formale o sostanziale del principio di legalità oggi riconosciuto come fondamento del nostro ordinamento giuridico, dato che, negli anni, si sono susseguiti due diversi orientamenti. La legalità intesa in senso formale intende di considerare il solo fatto che sia espressamente qualificato dalla legge come reato, sulla base del principio del favor libertatis, volto ad evitare che condotte, certo percepite come offensive e pericolose dalla società, ma non tipizzate come illeciti penali, potessero portare alla punibilità del soggetto attivo. Corollari di tale impostazione sono il principio di riserva di legge, la irretroattività della legge penale sfavorevole e la tassatività delle fattispecie, rilevando la operatività della legalità, non solo per il precetto, ma anche per la pena, nonché per le misure di sicurezza. Invece, la legalità nella concezione sostanziale o materiale vuole considerare come reati tutti i comportamenti che, a prescindere dalla espressa incriminazione in una previsione legislativa, sono socialmente pericolosi e quindi da punire con una pena, fondando la punibilità su una interpretazione criminologica del reato. Tale concezione garantisce una più ampia difesa sociale, nonché un maggior adeguamento del diritto penale al divenire della realtà sociale, ma pone degli inconvenienti giuridici, in quanto, da una parte, viola il principio di certezza del diritto e dall’altra, si trova in frizione con la tutela della libertà individuale del singolo di fronte al potere punitivo dello Stato. Pertanto, il nostro sistema penale ha adottato una impostazione diversa rispetto ai suddetti orientamenti, definita come concezione mista della legalità, in cui il reato deve essere previsto da una fattispecie incriminatrice, ma al tempo stesso deve essere conforme alla tutela costituzionale dei beni e dei valori fondamentali. Da ciò derivano i vincoli a cui deve sottostare il legislatore nella incriminazione dei fatti come reati, tra i quali si ricordano la necessaria materialità dei comportamenti – art. 25, comma 2 Cost., l’offensività della condotta – art. 13 Cost., la personalità della responsabilità penale – art. 27, comma 1 Cost. e la finalità rieducativa della pena – art. 27, comma 3 Cost. In conclusione, nel rispetto della legalità mista, affinché un fatto possa essere qualificato come reato, è necessario che sia previsto dalla legge come illecito penale – riserva di legge, non possa essere retroattivo – irretroattività della legge penale sfavorevole, deve essere determinato – principio di tassatività, deve rispettare il canone della estrinsecazione concreta – principio di materialità, nonché incriminare condotte lesive o potenzialmente tali di beni giuridici – principio di offensività, deve essere attribuibile alla condotta del soggetto dal punto di vista eziologico – nesso di causalità, nonché dal punto di vista psicologico – principio di colpevolezza, sanzionato con una pena avente finalità rieducativa, proporzionata in astratto alla tutela del bene giuridico ed in concreto alla personalità del reo.
Il principio di legalità si esplica anche con riguardo alla pena, anche se ciò non ha destato diffuse problematiche interpretative. Sebbene esso non sia espressamente riconosciuto dall’art. 25, comma 2 Cost., si è sempre desunto dall’insieme di altri principi fondamentali dell’ordinamento, ed ancor prima dalla interpretazione dei lavori preparatori della Costituzione ove si è deciso di non inserire l’inciso relativo alla pena per evitare che ciò comportasse il divieto di retroazione della disposizione più favorevole al reo. Peraltro, la legalità della pena costituisce presupposto ineludibile per l’applicazione di altri principi, come la colpevolezza e la rieducazione. Si ritiene quindi che la legalità della pena sia un principio di portata assoluta, che abbraccia tanto le pene principali quanto quelle accessorie, così come anche gli effetti penali della condanna. Invero, la normativa di rango primario stabilisce sia i tipi – artt. 17 e 19 cod. pen., che i contenuti della pena medesima – es. art. 22 cod. pen. Permane solamente il dubbio in merito a spazi di discrezionalità riconosciuti in capo al giudice per assicurare la individualizzazione della sanzione e la sua coerenza col disvalore del fatto. Lo spazio discrezionale concesso al giudice in merito alla modulazione della pena garantisce il rispetto della legalità attraverso l’imposizione di una rigida motivazione in capo allo stesso in relazione alle scelte sanzionatorie. In generale, il principio di legalità della pena postula la preventiva determinazione da parte della legge del quomodo, cioè della tipologia di sanzione, nonché dell’an, cioè dei criteri di applicazione della stessa, da ciò derivando la difficoltà di assicurare la concreta gradazione del trattamento sanzionatorio, bilanciata dalla previsione di corni edittali di una certa latitudine – cfr. Corte Cost., n. 299/1992 ritiene che il principio di legalità della pena non imponga al legislatore di prevedere in misura fissa le pene destinate alla repressione dei singoli reati.
Dopo aver individuato la base giuridica ed il fondamento garantista della legalità, è necessario, sul piano delle fonti, oggi, guardare anche al livello sovranazionale, giovando anteporre alla disamina la ricostruzione dei rapporti intercorrenti tra CEDU ed ordinamento nazionale, al fine di comprendere la portata dei principi della Carta all’interno del nostro sistema penale, in seguito al susseguirsi di vari orientamenti. Secondo l’impostazione prevalente, seguita ripetutamente dalla Corte Cost. – in particolare sentenze nn. 347 e 348/2007, si è affermato che alla CEDU va riconosciuta natura di parametro costituzionalmente interposto, non rinvenendone il fondamento giuridico nè nell’art. 10 Cost., in quanto la CEDU fa riferimento a disposizioni di carattere pattizio, e neppure all’art. 11 Cost., norma che limita la sovranità degli Stati, ma avendo base costituzionale nell’art. 117, comma 1 Cost. Invero, il legislatore, nella introduzione delle norme, deve tener conto degli obblighi derivanti dalle norme internazionali e, in relazione a ciò, si è concluso nel senso che la CEDU, nella parte in cui prevede diritti, principi o regole, diviene parametro interposto dell’art. 117 Cost. e, di fronte ad una norma nazionale che appare configgente con una disposizione CEDU, il giudice non può disapplicare la prima e ritenere primaria la seconda, ma deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma ritenuta violativa, sulla base dell’art. 117 Cost., con parametro interposto della CEDU. Tuttavia, prima di sollevare tale questione, il giudice nazionale deve verificare se esistono spazi per una interpretazione convenzionalmente orientata di una disposizione nazionale, in quanto la CEDU, prima ancora che essere parametro di controllo della legittimità costituzionale della norma nazionale, è parametro di interpretazione. Si precisa altresì che il giudice nazionale, come si evince dalla Corte Cost., sentenze n. 49/2015 e prima n. 264/2012, deve prima chiedersi se la norma CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, non sia in contrasto con gli altri principi costituzionali dell’ordinamento interno, altrimenti, in tali casi, egli deve chiedere alla Consulta di verificare la coerenza della norma o principio CEDU con i principi interni ed in tale spazio di valutazione, la dottrina ravvisa il c.d. margine di apprezzamento nazionale che l’ordinamento italiano si riserva. In base ad una diversa ricostruzione, sviluppatasi a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 2009, con cui si è inserito l’art. 6 TUE, attraverso il quale si è affermata la adesione della UE alla CEDU, si è evidenziato che ciò ha comportato l’assoggettamento delle norme della CEDU al regime delle disposizioni comunitarie con conseguente obbligo per i giudici nazionali di procedere, in via immediata e diretta, alla disapplicazione delle norme interne configgenti senza transitare dal controllo di legittimità della Corte Costituzionale. Tali tesi non ha persuaso ed è stata ampliamente criticata, in quanto, anche se i paragrafi della norma fanno rifermento alla Carta di Nizza ed alla CEDU, diverso è il valore giuridico delle due convenzioni, poiché la prima acquisisce lo stesso valore giuridico dei Trattati, mentre la UE ha solo aderito alla seconda. Ciò posto, è opportuno soffermarsi sul possibile rilievo che, in ambito penale, hanno assunto le norme della CEDU, dovendo confrontarsi con la tesi prevalente, seguita ad oggi dalla Corte Costituzionale, della non equiparabilità della CEDU al diritto comunitario, evidenziando due possibili effetti. In relazione agli effetti limitativi, occorre precisare che i principi CEDU sono uguali a quelli contenuti nel nostro ordinamento, dal punto di vista contenutistico, mentre ciò che cambia è l’ambito di applicazione, il quale, a livello sovranazionale, è molto più esteso rispetto a quello nazionale. Invero, i principi in Italia si riferiscono ai reati ed alle pene, non anche alle altre tipologie di violazioni, e, ciò che è reato e pena a livello internazionale è diverso, solitamente più ampio, di ciò che tale è considerato nel nostro sistema penale. In tema di effetti espansivi, è necessario sottolineare che ciò avviene in pochi casi, in quanto la CEDU riconosce diritti fondamentali ed impone agli stati di proteggerli adeguatamente contro le violazioni che a quei diritti arrechino le condotte degli altri stati o di altri privati.
A livello sovranazionale, la norma centrale di riferimento è all’art. 7 CEDU, il quale, oltre a riferirsi alla irretroattività della legge penale, sancisce, in generale, il principio di legalità, in ordine ai delitti ed alle pene. Tuttavia, esso non racchiude in sé il corollario della riserva di legge, l’esigenza della esistenza di una norma scritta, né l’espresso riferimento alla retroattività della norma penale di favore, derivando dalla commistione di principi inerenti differenti ordinamenti di civil law e common law. Nonostante ciò, la norma in esame è importante incidenza applicativa, come si evince dalle diverse tendenze della Corte EDU a rafforzare ed innovare la portata garantista della legalità e della irretroattività negli stati interni. Pertanto, la portata applicativa dei principi di legalità e di irretroattività sfavorevole si estende al di là dei reati e delle pene come formalmente intese in base al diritto interno, estendendosi a tutte le misure considerate intrinsecamente penali in base alla c.d. concezione autonomistica accolta dalla giurisprudenza CEDU. Difatti, secondo la Corte, il diritto interno costituisce un punto di partenza, mentre la nozione di pena e di accusa penale ai fini del concreto rispetto della CEDU deriva dalla interpretazione autonomamente fornita dalla Corte EDU, libera di andare oltre le apparenze e valutare in sostanza la portata della incriminazione. Più in generale, si fa riferimento ai c.d. Engel criteria, così definiti in virtù della storica sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976, i quali sono quattro ed ineriscono alla qualificazione prevalente negli Stati contraenti, alla natura penale della infrazione, alla natura punitiva e gravità della sanzione diretta a fini preventivi e punitivi ed al collegamento con una violazione penale. In base a ciò, i giudici di Strasburgo prevengono talvolta ad attribuire carattere penale a talune sanzioni e misure non considerate formalmente pene dall’ordinamento nazionale.